Fico Crolla Davanti al Sistema De Luca: Il Retroscena Che Nessuno Doveva Sapere. Nessuno aveva previsto che sarebbe accaduto così. Fico parla, argomenta, sorride — ma c’è un momento esatto, un frammento di secondo impercettibile, in cui qualcosa si spezza. Non nelle parole, ma nello sguardo. Quando si nomina De Luca, lo studio trattiene il fiato come se tutti sapessero e fingessero di non sapere. Un tecnico si avvicina al mixer, una cartellina si apre da sola come tradita dal peso del contenuto. Dentro, dicono, ci sarebbero “le tre prove” che nessuno avrebbe mai dovuto incrociare: un audio, una donazione, un numero. Il pubblico non sente, ma vede la paura negli occhi. La domanda che rimbomba non è cosa è successo, ma: chi sta ancora proteggendo ciò che manca?|KF

Guardatelo bene, non c’è paura nei suoi occhi.

Non c’è nemmeno quella frenesia ansiosa tipica di chi ha appena perso una poltrona.

C’è una sicurezza tronfia, una forma di arroganza geologica, sedimentata strato su strato.

De Luca sa di essere detestato, e se ne nutre.

Nei salotti televisivi di Roma, nei circoli bene del PD, nelle chat dei parlamentari grillini, il suo nome suona come una bestemmia.

Cacico, ras, signore delle fritture: etichette come pietre.

Lui sorride, perché conosce la regola primaria del potere in Italia: la politica non si fa con i like, si fa con i voti.

E i voti, li ha contati uno a uno, li ha messi in cassaforte, e ora ci siede sopra con le braccia conserte, aspettando che il “nuovo” venga a bussare con il cappello in mano.

Campania, De Luca vuole l'atto di sottomissione di Fico (che tace)

Il popolo lo detesta e al tempo stesso ne è terrorizzato.

Perché De Luca è uno specchio deformante, eppure sincerissimo, delle nostre ipocrisie.

Dice con voce alta quello che altri sussurrano: la democrazia è una procedura fastidiosa, il comando deve essere assoluto, chi vince prende tutto e chi perde sparisce.

E lui non è sparito.

È qui, e la sua presenza ingombrante rende l’aria irrespirabile per chiunque altro.

Dall’altra parte del tavolo — o forse sullo stesso lato — c’è Roberto Fico.

Il protagonista annunciato, l’uomo del cambiamento, quello che prendeva l’autobus, il presidente della Camera che voleva aprire le istituzioni come una scatoletta di tonno.

Guardatelo oggi: la barba più grigia, le spalle curve sotto un peso invisibile.

Nel suo sguardo non c’è trionfo, c’è l’angoscia di chi ha capito di essere finito in trappola.

Nella testa, un frastuono: il rumore dei principi che si sgretolano contro il muro gommoso della realtà.

Ogni passo verso la stanza dei bottoni lo allontana dalla sua gente, dalla sua storia, dalla sua anima.

Vorrebbe essere il condottiero del cambiamento, si sente un ostaggio che negozia la liberazione con i suoi stessi carcerieri.

E la tragedia è che sa che noi lo sappiamo.

Il duello non si combatte con spade né urla.

Si combatte con clausole, con non detti, con postille scritte in punta di penna.

Immaginate la scena: Fico a capotavola, i fedelissimi attorno con tablet e dossier, di fronte non c’è De Luca in persona — non si abbassa ai dettagli — ci sono i suoi emissari.

La presenza del vecchio potere aleggia come un odore.

E c’è l’ombra di Clemente Mastella, che da Benevento manda segnali di fumo densi di zolfo.

Gli emissari parlano con cortesia viscida, quella dei notai che ti spiegano, sorridendo, perché perderai l’eredità.

“Presidente Fico, siamo qui per aiutarti.

Vogliamo solo stabilità.”

La parola stabilità esce come minaccia.

Senza di noi, non duri una settimana.

Tu hai la fascia, ma noi abbiamo i numeri.

Mario Casillo, mister 40.000 preferenze.

I consiglieri di De Luca, i fedelissimi di Mastella.

Se muovi un dito senza permesso, ti paralizziamo.

È l’ipocrisia diventata arte di governo.

Alleati di facciata, parassiti di fatto.

Fico, il nostro eroe tragico, reagisce con calma apparente, una maschera di cera che inizia a sciogliersi.

Ascolta, annuisce, prende appunti su un foglio che resterà bianco.

Nella mente cerca disperatamente una via di fuga morale.

“Devo tenere il punto.

Devo imporre la regola: nessun consigliere eletto in giunta.

Discontinuità, competenza, profili alti.”

Ma mentre pronuncia queste parole, percepisce la loro vuotezza nella stanza.

È come lanciare fiori di carta contro un carro armato.

De Luca, metaforicamente, ha già piazzato cariche esplosive sotto le fondamenta del nuovo palazzo regionale.

Le ha armate mesi fa, con liste civiche e uomini che rispondono solo a lui.

Ora attende il passo falso: basterà che Fico provi a fare il duro per far saltare tutto, e dimostrare che senza “lo sceriffo” non si governa.

È guerra di logoramento psicologico.

Fico è un generale che comanda un esercito che, al primo fischio, obbedirà al nemico.

Intanto, il coro greco dei ricatti incrociati: Mastella tuona, “se escludete mio figlio perché è eletto, allora voglio un posto per me”.

Il PD si divide in bande: Casillo reclama la vicepresidenza come diritto feudale.

Spettacolo degradante.

La politica ridotta a mercato del pesce.

Non sanità, non trasporti, non ambiente: solo poltrone.

Fico, l’uomo dei cittadini nelle istituzioni, diventa vigile urbano in un ingorgo di ambizioni personali.

Il tempo si ferma: silenzio assoluto.

Il battito dell’orologio a muro annuncia il momento in cui si scoprono le carte.

Siamo al punto di non ritorno.

Fico deve presentare la squadra.

Deve dare i nomi.

Deve mostrare al mondo il volto del nuovo inizio.

C’è un attimo di esitazione lungo un’eternità.

Guarda i giornalisti, guarda le telecamere.

Per un secondo, forse, pensa di dire la verità: “Non ce l’ho fatta, mi hanno costretto”.

Non lo fa.

Ingoia l’amaro calice e parla.

La battuta finale non è un aforisma.

È un elenco.

“Per l’agricoltura, Alfonso Pecoraro Scanio.

Per l’innovazione, Luigi Nicolais.”

Fermate il mondo.

Riavvolgete il nastro.

Avete sentito bene?

Pecoraro Scanio, ex leader dei Verdi, ex ministro dell’Ambiente nel secondo governo Prodi.

Parliamo del 2006.

Venti anni fa, un’era geologica.

Luigi Nicolais, 83 anni, ex ministro di Prodi, uomo del passato remoto.

Il silenzio in sala stampa si fa mormorio, poi sgomento.

È come aprire un sarcofago egizio e trovarvi polvere, non tesori.

La narrazione di Fico si disintegra.

De Luca ride, da qualche parte: una risata di pancia.

È il suo capolavoro finale.

Non ha piegato solo Fico.

Lo ha umiliato.

Lo ha costretto a riesumare i fantasmi della Seconda Repubblica per dare una parvenza di autorevolezza alla giunta.

Ha trasformato il Movimento 5 Stelle — il partito dei giovani, del digitale, del futuro — nel più vecchio riciclato governo democristiano in salsa partenopea.

L’imbarazzo di Fico è fisico.

Balbetta “esperienza”, “profili nazionali”.

Nessuno lo ascolta più.

Le parole si dissolvono nel vuoto pneumatico della delusione.

Nella mente di chi aveva creduto nel cambiamento, nasce un pensiero devastante: ci hanno presi in giro.

È il colpo di grazia.

De Luca non ha sparato un colpo.

Ha aspettato che Fico si suicidasse politicamente, impiccandosi con la corda del campo largo.

Riesumare Pecoraro Scanio nel 2025 non è una scelta politica.

È un’ammissione di fallimento.

Una bandiera bianca sopra le macerie del rinnovamento.

Non cambiate canale.

Non distogliete lo sguardo.

Quello che avete visto non è solo cronaca locale: è lezione universale sulla natura del potere in Italia.

È vittoria definitiva del realismo sull’ideologia.

Abbiamo sperato ingenuamente che la storia avanzasse, che dopo anni di De Luca, Mastella, cacicchi, arrivasse qualcosa di diverso.

Ci sbagliavamo.

La storia, qui, gira in tondo.

È un cerchio perfetto che riporta sempre al punto di partenza.

Questa non è la nascita della giunta Fico.

È la restaurazione del governo Prodi in salsa partenopea.

Il trionfo del Gattopardo: tutto cambia perché nulla cambi davvero.

Roberto Fico entrerà nella storia non come rivoluzionario, ma come traghettatore che ha riportato il ceto politico degli anni 2000 al comando per sopravvivere un giorno in più.

E Vincenzo De Luca?

Resta nell’ombra, vincitore morale.

Gli togli la fascia, non gli togli il potere di decidere il destino degli altri.

La sentenza è scritta, e appare inappellabile.

Eppure, dentro questo verdetto, c’è un’ultima domanda che pesa.

È davvero solo colpa dei “vecchi”?

O è la struttura stessa della politica campana — consiliare, clientelare, numerica — che ingoia ogni promessa di discontinuità?

La risposta non consola.

Senza regole nuove e meccanismi che premino merito e trasparenza, ogni “nuovo” è un suddito che deve trattare con i signori dei voti.

Fico, davanti al bivio, ha scelto il compromesso.

Avrebbe potuto forzare?

Sì, al prezzo di far saltare la giunta prima di nascere.

Avrebbe potuto esporre il ricatto?

Sì, al prezzo di sembrare incapace di governare.

Ha scelto l’illusione della stabilità.

Il conto lo pagherà nel tempo.

Napoli intanto resta avvolta da quel silenzio d’agguato.

I corridoi di Santa Lucia risuonano di passi misurati, di frasi metà dette e metà rinviate.

La città conosce questi tempi.

Sa che dopo la calma innaturale viene l’onda.

Non si sa se sarà d’acqua pulita o di detriti.

Si sa che travolgerà il racconto, e lo rimetterà in ordine secondo gerarchie antiche.

Una cosa, intanto, possiamo fissare come promemoria civile.

La discontinuità non si misura dagli slogan, né dai nomi famosi ritirati dal passato.

Si misura da tre atti semplici: trasparenza sui patti, merito sulle scelte, tempi sulle consegne.

Senza questi, ogni giunta è un’appendice di un’altra.

Senza questi, ogni “rivoluzione” è un restyling.

Per ora, Napoli trattiene il respiro.

Il mare si è ritirato, ha scoperto carcasse e segreti.

Il potere, come un rettile antico, cambia pelle per restare identico.

E noi, spettatori e cittadini, abbiamo davanti un compito minuscolo ma cruciale: ricordare i nomi, ricordare le promesse, ricordare le date.

Perché la storia — anche quando gira in tondo — non perdona gli smemorati.

E il silenzio dell’agguato, se non chiamato per nome, diventa abitudine.

Questa volta lo abbiamo visto.

Questa volta sappiamo di cosa è fatto.

Di numeri, di ricatti, di restaurazioni.

E di una verità che non fa rumore: senza un diverso modo di formare il potere, il potere non cambia.

Napoli lo insegna da secoli.

Oggi lo ripete, piano, dentro quel silenzio che sa di mare basso e di tempesta in arrivo.

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