Repubblica nell’occhio del ciclone: la mossa di Elkann azzera tutto, redazione nel caos, fratture interne – ecco la verità che nessuno osa raccontare

Sotto la pioggia di dicembre, il palazzo di vetro e cemento in via Cristoforo Colombo non sembra più il cuore pulsante di una democrazia editoriale, ma un mausoleo illuminato a neon, un tempio del tempo scaduto.

Le finestre riflettono luci fredde, i badge trillano svogliati ai tornelli, e il brusio che un tempo precedeva la chiusura d’edizione è diventato il rumore bianco della rassegnazione.

C’è una differenza tra il declino e la fine.

Il declino lo combatti, la fine la intuisci e abbassi lo sguardo.

Qui molti hanno smesso di combattere da tempo, senza che nessuno, lassù, trovasse il coraggio di dire ad alta voce ciò che tutti sapevano.

La mossa di John Elkann non è una sciabolata, è un guanto di velluto calato con precisione svizzera su una clessidra già vuota.

Niente proclami, niente trionfi.

John Elkann vende La Repubblica? E a chi? E che c'entra “l'uomo che  sussurra ai potenti”, Luigi Bisignani? - MOW - Mowmag.com

Solo il linguaggio che l’alta finanza predilige: tempi, condizioni, numeri, silenzi.

Fa più male del previsto proprio perché non urla.

Nessuno si illude più che gli “asset editoriali” possano sopravvivere separati da conto economico, margini, ritorni.

La retorica del servizio pubblico privato, la missione etica, le crociate civili: tutto vero, tutto necessario, ma tutto, oggi, filtrato attraverso un file Excel.

“Non è odio, non è vendetta,” bisbiglia chi conosce Elkann.

“È ingegneria.”

Ingegneria di portafoglio, ingegneria di reputazione, ingegneria del rischio.

Eppure, dentro quelle stanze, la parola che cammina sui corridoi è più antica: tradimento.

Non il tradimento politico che riempie editoriali e meme, ma quello esistenziale di chi ha creduto che bastasse “stare dalla parte giusta della storia” per avere diritto a un’eccezione permanente.

La realtà, invece, non fa sconti nemmeno alle cause nobili quando si staccano dalla vita concreta dei lettori.

La redazione che si aggira tra scrivanie ingombre e homepage da aggiornare vive la coreografia di un lutto senza funerale.

C’è chi ripete meccanicamente i gesti del mestiere, chi compone titoli sapendo che scivoleranno via come pioggia su vetro, chi apre un documento e lo chiude senza inviarlo mai.

Le mail non spedite pesano più di un editoriale.

Dentro contengono domande che sembrano banali e invece inchiodano: “Perché?”, “Quando?”, “Con che faccia?”.

Nessun comunicato ufficiale è in grado di rispondere a domande che non sono amministrative.

La verità si legge negli occhi di chi non parla, negli sguardi che evitano sguardi, nell’imbarazzo dei capi che devono “spiegare” l’inesplicabile.

È qui che le narrazioni si spaccano.

Da una parte la linea corporate: trasformazione, efficienza, digitale, sostenibilità.

Dall’altra il racconto sussurrato dei corridoi: logoramento, menzogne per bene, “gaslighting” istituzionale.

Per mesi, dicono, il refrain è stato rassicurante: nessuna trattativa, fidatevi del progetto, la casa è solida.

Nel frattempo le fondamenta erano già state cedute in pegno alla logica del “si salva chi converte, si taglia chi non scala”.

A ben guardare, la crisi non è cominciata con l’annuncio, ma con l’evaporazione lenta di un rapporto di fiducia.

Quando smetti di parlare al Paese reale e inizi a parlare soltanto alla tua idea di Paese, i lettori diventano specchi, non persone.

Ti rimandano l’immagine che proietti.

E quando quell’immagine stanca, il giornale non perde solo copie, perde senso.

La metamorfosi di Repubblica e del gruppo che la ospita è una parabola italiana.

Dai giorni in cui un titolo spostava il dibattito nazionale, al presente in cui una “push notification” non buca nemmeno la bolla di chi ti segue per inerzia.

Non è solo colpa degli algoritmi.

È anche la scelta, ripetuta e quasi liturgica, di salire su cattedre morali lasciando sguarnita la trincea del racconto concreto.

A un certo punto la “linea” ha iniziato a precedere la notizia.

La tesi cercava i fatti che la confermassero.

Il Paese, intanto, cambiava temperamento.

Chi stava in coda alle Asl, chi compilava F24, chi cercava un pediatra o una colonnina di ricarica non si riconosceva più nella lingua dei longform indignati.

Gli abiti linguistici della redazione sono rimasti in giacca e cravatta mentre i lettori passavano al giubbotto.

John Elkann entra in scena con l’aplomb che la dinastia insegna: mai una parola di troppo, mai una smorfia.

Non disprezza, non ama.

Ribilancia.

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Sposta pedine su una scacchiera globale dove un giornale vale se protegge o accresce il valore del perimetro.

C’è chi lo considera l’alfiere di una desertificazione culturale, chi il chirurgo necessario di un corpo che nessuno voleva operare.

Lui, probabilmente, non considera nessuna delle due cose rilevanti.

Conta la traiettoria, non la sceneggiatura.

E qui la traiettoria dice che un certo modo di stare nel mercato dell’informazione non regge più, né economicamente né simbolicamente.

La parola che attraversa i sottopancia – “ceduto”, “riorganizzato”, “ottimizzato” – è la stessa parola che svuota le redazioni: “standardizzato”.

È l’opposto della voce.

E un giornale, quando perde la voce, non muore subito: si spegne per accumulo, numero dopo numero, liveblog dopo liveblog.

Le fratture interne oggi non sono tra “vecchi” e “nuovi”, tra “cartacei” e “digitali”.

Sono tra chi crede ancora che la missione sia dire al lettore cosa deve pensare e chi, con umiltà tardiva, vorrebbe tornare a chiedergli cosa gli serve sapere.

La prima fazione ha perso il Paese, la seconda non ha ancora trovato il modo di riconquistarlo.

In mezzo c’è la proprietà, che ha già deciso.

La scelta che “azzera tutto” ha l’effetto collaterale di azzerare anche le scuse.

Non si potrà più dare la colpa solo a Facebook, alla frammentazione, al Qoe, ai bandi di gara.

Se resti in piedi, resti perché servi.

Se cadi, cadi perché hai smesso di servire.

Fa male, ma è così.

Nel racconto ufficiale, questo è il tempo della “razionalizzazione”.

Nel racconto vero, è il tempo dell’espiazione.

Paghi l’arroganza accumulata quando scambiavi la tua bolla per il Paese.

Paghi l’ipocrisia di predicare trasparenza a politici e imprese mentre accettavi un “non commentiamo le indiscrezioni” come dogma interno.

Paghi la presunzione estetica con cui hai etichettato pezzi di società come “arretrati” solo perché non parlavano la tua lingua.

Molti, tra i corridoi, questo lo sanno.

Lo ammettono a bassa voce, nella forma del rimpianto: “Dovevamo cambiare tono prima”, “Dovevamo uscire più spesso”, “Dovevamo sporcarsi le mani”.

Le responsabilità, però, non sono mai a senso unico.

C’è anche un Paese che ha disinvestito culturalmente, che ha confuso informazione con intrattenimento, che ha chiesto il brivido del talk più della noia del dato, che ha premiato la postura rispetto all’analisi.

In questo patto di mediocrità condivisa, la scelta di Elkann è un atto estremo: togliere la morfina.

Smettere di far finta.

E obbligare tutti a rispondere alla domanda più terribile per un giornale: a cosa servi oggi?

Dentro, qualcuno prova a reagire.

Gruppi ristretti ripensano format, ipotizzano desk diffusi, tornano a parlare di cronaca minuta, di servizio, di prossimità.

Immaginano abbonamenti non come “sostegno alla causa”, ma come scambio: ti do strumenti per vivere meglio, tu mi dai fiducia pagata.

Altri, invece, sprofondano nella nostalgia.

Vorrebbero che bastasse un grande editoriale collettivo per invertire la marea.

Ma l’epoca dei manifesti è finita.

Conta la mappa: sanità, scuola, tasse, lavoro, territori.

Conta la presenza: sindaci, ambulatori, tribunali, fabbriche.

Conta la lingua: semplice non vuol dire banale, complessa non deve essere inutile.

La frattura più dolorosa, oggi, è quella generazionale.

Le redazioni che hanno insegnato a scrivere al Paese si scoprono incapaci di scrivere al telefono del Paese.

Le app sono favelas editoriali dove i titoli devono respirare nei pollici, non nei colonnini.

I longform sono oratori che chiedono un’attenzione che il mondo non concede più gratis.

Non è una condanna, è un vincolo.

Raccontare l’Italia significa piegare il racconto all’Italia che c’è, non a quella che vorremmo.

Nel silenzio successivo all’annuncio, due figure dominano, lontane e parallele.

Elkann, fermo nella sua glaciale costanza.

La redazione, agitata nella sua impotenza rumorosa.

Non si incontreranno mai.

Sono due pianeti con orbite diverse.

Il giornalismo, per sopravvivere, deve cambiare sistema solare.

Non può più vivere solo di capitale simbolico e di rendite morali.

Deve tornare all’artigianato: verificare, spiegare, servire.

Lì si riforma anche il rapporto con il potere.

Non si è contropotere per diritto divino, lo si diventa per qualità del servizio reso ai deboli.

È questa, forse, la verità che nessuno osa raccontare: non c’è nessuna congiura contro Repubblica o contro la “stampa libera”.

C’è la resa dei conti con un’abitudine, con un’intonazione, con una certa idea di superiorità.

E c’è una scelta proprietaria che, nel suo cinismo, pone il problema in modo limpido: o tornate necessari o diventate sostituibili.

Ci si può ribellare?

Certo.

Ma la ribellione, stavolta, non è in prima pagina.

È nelle pagine interne che smettono di essere interne, è nei territori, è nelle newsletter che arrivano alle 7 e non alle 11, è nelle dirette dai tribunali minori, è nelle storie senza glamour che risolvono problemi pratici, è nelle verifiche che sgonfiano bufale anche quando fanno comodo ai propri amici.

È faticoso, non “glorioso”.

Ma è l’unica via che non dipende dagli umori del proprietario.

La scena finale di questa giornata non è un’assemblea infuocata.

È un open space in cui qualcuno archivia faldoni con cura quasi religiosa, qualcuno salva bozze con nomi provvisori, qualcuno scrive un messaggio su WhatsApp e lo cancella.

La porta che si chiude senza rumore è una metafora perfetta di ciò che accade quando finisce un’epoca.

Non la senti con le orecchie, la senti nello stomaco.

Domani mattina i badge suoneranno ancora, i siti si aggiorneranno, le newsletter partiranno.

Ma tutto sarà leggermente spostato.

L’aria, il tono, la certezza.

E da quella fessura, se c’è ancora coraggio, può entrare la realtà.

La realtà dei lettori che non vogliono essere educati, ma accompagnati.

La realtà dei numeri che non devono spaventare, ma illuminare.

La realtà di un giornalismo che non sta morendo perché il mondo è cattivo, ma perché ha dimenticato perché era nato.

La scelta di Elkann è un colpo di clessidra.

Ti ricorda che il tempo non ti appartiene.

Ti costringe a decidere.

Se restare mausoleo o tornare redazione.

Se vivere di memoria o vivere di notizie.

Se parlare nell’eco della propria bolla o ascoltare il rumore del mondo e tradurlo in qualcosa che valga la pena leggere.

La porta, ora, è quasi chiusa.

C’è un ultimo spiraglio.

Non farà rumore nemmeno quello.

Ma basterà a chi ha voglia di ricominciare dal mestiere.

Tutti gli altri continueranno a scrivere mail mai inviate, titoli che non bucano, editoriali per pochi amici.

E si convinceranno che è colpa del clima, degli algoritmi, del proprietario.

A volte è più semplice.

È colpa del silenzio tra le righe, quando smetti di dire ciò che gli altri non osano.

E soprattutto smetti di chiederlo a te stesso.

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